Cronache dal fronte


Mi ricordo quand’ero bambino, piccolo scolaro di prima vicino a Treviso. La scuola stava di fianco alla strada statale in centro paese dietro al casotto in muratura dell’edicola, al di là di un giardino con alberi non ricordo più di che tipo. Potevano sembrare sugheri. Era un edificio giallo dall’intonaco scrostato. L’aula aveva il pavimento di assi grezze che scricchiolavano ad ogni passo. Al mattino il bidello con il grembiule nero entrava con una boccia di vetro in mano e passava tra le fila a riempire i calamai, incastonati in un apposito foro in un angolo del piano di lavoro. Ad ogni passo il piancito scricchiolava sinistro sotto il suo peso. Io infilavo il pennino nel portapennino e poi lo tenevo qualche istante sospeso nel vuoto schiacciandone il vertice tra il pollice e l’indice della mano destra. Infine lo lasciavo cadere a peso morto in verticale, sperando si infilzasse nelle assi come ritenevo lecito attendersi. Ma non sempre accadeva. All’inizio dietro la cattedra c’era una maestra che parlava, ma non ne ricordo né il viso né la voce né il nome. Poi dal secondo anno è arrivato il maestro. Ci eravamo spostati in un altro fabbricato e per andare in classe dovevamo salire le scale. A me piaceva la figlia del maestro, che abitava vicino a me, e alla mattina la curavo dalla finestra e quando la vedevo passare mi precipitavo in strada facendo finta che fosse per caso. Sul pianerottolo dove stavano le aule cercavo poi di appendere il mio cappotto vicino al suo. Il cuore mi batteva molto forte. Le classi erano la mia maschile e la sua femminile. Non c’erano classi miste, e la cosa a me dispiaceva. Il maestro ci insegnava tante cose. Io ero bravo in disegno ed ero in concorrenza con Oscar, che abitava al villaggio azzurro. Alla fine dei dettati o dei temi bisogna fare un disegno illustrativo con le matite colorate, ed il maestro alla fine dava il voto, separato, anche al disegno. Una volta ad Oscar diede undici, con il punto esclamativo. La volta successiva vide il mio disegno e si inalberò tutto come se avesse una piccola convulsione, che significava che quello che provava e che voleva dire era per lui inesprimibile. Alla fine con gesto secco e ineluttabile mi diede dodici con due punti esclamativi. Il maestro ci insegnava tante cose, anche a fare l’elemosina per la ciesa come lui stesso faceva, con gesto ampio, quando in classe veniva in visita, una volta ogni tanto, il parroco Don Luigi a trovare la classe. Il maestro era anticomunista e credo che questa cosa mi sia entrata come si usa dire nel dna. Ci insegnava il Piave che mormorava calmo e placido al passaggio dei fanti il 24 maggio, il Monte Grappa, i partigiani e la resistenza. Anche mio papà alle volte andava alle commemorazioni dei caduti e poi tornava a casa magari un po’ alticcio e con un libro stampato su carta spessa, rugosa e giallognola, che a me piaceva da morire, con su i disegni dei fanti nell’atto dell’assalto, una gamba piegata in avanti nella corsa, le braccia aperte, il fucile con la baionetta innestata stretto in una mano ed il petto offerto generosamente al nemico ed alla Patria. Sullo sfondo, i rivoli del fiume che a mia memoria le volte che sono passato è sempre stato secco. Ma lì era disegnato con l’acqua, si vede che erano altre stagioni. Rivedo le gallerie cupe ed umide del Lagazuoi e le trincee del Col di Lana, i fantaccini infagottati cucci nelle trincee fangose sotto il fuoco nemico nella Grande Guerra del ‘15 - ’18. Colpi di fucile, colpi di mortaio, colpi di cannoni: a chi toccherà? E quando si parte per l’assalto, chi resterà in piedi, o smembrato sul suolo? L’epica della storia militare moderna non può cancellare lo strazio delle giovani vittime nel cruento sbarco ad Omaha beach, in Normandia, il 6 giugno del 1944. Viscere e pezzi di arti sparsi sulla sabbia e trascinati dalla risacca. E poi la peste. Quella di Milano, narrata dal Manzoni. Quella di Firenze del 1348, di cui ci ha detto il Boccaccio: ‘nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. Il popolo chiuso nelle case, i militi nelle trincee, tutti in attesa di sapere se saranno risparmiati o colpiti. Le sirene delle ambulanze oggi hanno sibilato numerose, lontane o più prossime, i morti salgono, nuovi contagi si aggiungono ai vecchi. Un silenzio irreale galleggia sulle vie e le piazze deserte, sulle nostre povere cose. Gli occhi si inumidiscono e il cuore si stringe al pensiero degli amici febbricitanti, oggi finiti in attesa al Pronto Soccorso. Che il virus si trasmetta anche in ambiente, per aerosol, non vi è prova, ma se ne parla. Il nemico invisibile pare in agguato in ogni dove. Chi colpirà? A chi toccherà? Anche noi, come i fanti, come i milanesi del Manzoni, come i fiorentini del Boccaccio, in quieta attesa. Al posto degli stracci la veste da camera, in pantofole, al caldo delle nostre case, luce ed acqua corrente, la sala comoda ed asettica di attesa di un destino surreale, dove malattia e morte traspaiono da ogni dove, camminano con le gambe dei pochi che incrociamo per strada andando al lavoro, ne cavalcano il fiato ed il respiro, nella attesa di qualcosa che dovrà succedere e forse è già successo o non succederà mai. Non a me, non a noi, forse. O forse sì. Il pensiero a volte è incredulo e mesto.  Solo il Cielo e Chi lo abita è testimone veritiero al mio cuore.



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