Il diluvio
Sciami
di corpuscoli invisibili volteggiano nell’aria, si annidano in ogni anfratto, stanno
in caccia ed in agguato. Il sole primaverile ancora fiammeggia nel vespero rutilante.
Cumuli soffici e corpulenti di panna bianca sprofondati nel catino azzurro
intenso del cielo si tingono di antrace e di arancio sfrangiandosi nei bordi martoriati
dalle violente correnti di quota. Folate fredde sibilano di quando in quando radenti
e senza ragione apparente sui piani d’asfalto delle vie deserte. Le luci dietro
le finestre della casa di cura sono spente, le tendine grigie calate a mezzo su
dolori che immagino numerosi e silenti. Non si muove una foglia. Non un’anima. Una
os in tenuta verde da sala operatoria e mascherina chirurgica a coprire il
volto sbuca dalla porticina laterale degli ambulatori trascinando un sacco nero
che poi lancia con sollievo e gesto ampio e liberatorio nelle fauci spalancate
dei bidoni neri dell’indifferenziato, come il marinaio verso il molo la gomena
d’attracco dopo la perigliosa traversata. Ognuno vive la sua vita ritirata tra
le pareti di casa, accucciato solitario come un marinaio a scrutare i flutti dal
pennone del suo albero maestro. La città priva di vita apparente si sviluppa
su prospettive desertiche surreali. Ogni cosa è sospesa, il tempo trattiene il
respiro mentre il brulichio invisibile si accentua all’inverosimile nella mente
e nella fantasia di chi, più fragile, inizia a vacillare nella preoccupazione
dell’oggi e del domani. Il diluvio è iniziato. Il diluvio è in corso. Epidemico,
pandemico, endemico, talassemico. Gli agenti infettivi sono numerosi come le
gocce di acqua che dal cielo una per una attraversavano la distanza che li separava
dalle antiche terre d’Armenia quando Noè, asse dopo asse, su ordine di Dio costruiva
l’arca. La solitudine di chi ansima sfinito od asfittico e moribondo dentro le
corsie dei nosocomi sfiancati si unisce in un’aura diafana a quella di chi
scruta con la mente orizzonti cupi dentro allo spettacolo paradossale di una
natura stupenda e stupefacente nella fioritura primaverile. Questa cosa è più
grande di noi. Immensamente più grande di noi. E non par possibile ridurla a
ragione. Il morbo ci fa bussare alle porte dell’infinito. La scopa della morte
spazza via una generazione, forse quella che ha tradito la fede e consegnato il
mondo al Nemico. Dentro l’arca in cui ciascuno si trova il dono di una fetta di
deserto. Fuori, il diluvio, che distrugge ogni cosa. Nella solitudine delle aspre
distese desertiche, ciascuno può finalmente fermarsi e tornare in sé, il cuore
finalmente trepido, e mettersi in cerca. La colomba arriverà, nel becco il
ramoscello.