Dio ha dato Dio ha tolto



Adesso iniziare a scrivere cosi, ex abrupto, dal nulla, per così dire, non è semplice. Mettere in ordine le idee. Richiamarle alla memoria, più che altro. Ci sono momenti in cui nel pensiero si toccano vette altissime di senso, di significati. Che poi si perdono. Una volta siamo andati in Liguria, vicino a Rapallo. A Camogli, precisamente. Abbiamo fatto quella lunga passeggiata fino a punta Chiappa. Passando nel bosco ad un certo punto ci siamo imbattuti in un ristorantino con pergolato, panche e tavoli in legno dipinto, leggermente in costa, vista mare. Le barche rovesciate pancia in aria e le reti da pesca con il polistirolo policromo dei galleggianti aggrovigliate sulle chiglie. Io e Paola da soli. Sul limite del promontorio spoglio e roccioso il rudere in cemento di una fortificazione, una di quelle della seconda guerra mondiale per batterie di artiglieria navale o antiaerea, non so. Poca gente, un cielo bigio sopra di noi ed a perdita d’occhio verso l’orizzonte. Tutto sommato un po’ deludente. Prima di scendere, ad inizio giornata, dalla chiesuola in coppa al borgo, due non più tanto giovani convolavano a nozze, noi a sbirciare dal portale della chiesa semiaperto per la calura agostana. Poi l’uscita sotto la pioggia di riso e le ovazioni, io non credendo a miei occhi a scattare foto a raffica. Il pranzo ero stato parco, io soffrivo sempre molto la scarsità delle porzioni, e la camminata aveva stimolato l’appetito. Meglio i generosi panini dello zaino, li avessimo avuti. Poi arriviamo a Camogli dove l’abside panciuto della Chiesa trattiene e puntella la spinta della schiera delle case dalle facciate basse e multi colore in fila sul limite della rena. Ci stendiamo e ristiamo per un po’, godendo la quiete dei luoghi e del momento. Poi due passi sulla via centrale, le vetrine affacciate e la gente a passeggio. A parte l’estate, non ricordo altro neppure del viaggio. Pensa, eravamo liberi di muoverci. Potevamo uscire di casa, spostarci e guardare il mondo. Un’altra volta tornavo, forse, da Spezia, per lavoro. L’appennino era ostico, dalle parti di Berceto decido di prendermi una pausa, prendo l’uscita e scendo vagabondando sotto il viadotto, nell’ampio bacino del Taro. Nella solitudine e nell’abbandono, qualche rigagnolo di acqua grigia e tersa scorre luccicane in mezzo alle rive sassose. Il caldo è opprimente e l’afa insopportabile. Un’altra volta stiamo percorrendo i sentieri tra Tellaro e Lerici, oppure verso Montemarcello. Anche qui il sole scotta sulla pelle umida. Sudati e ansimanti arriviamo nel borgo, il piccolo bar edicola, la chiesa storica, la pala medievale con il santo o il profeta che campeggia in centro, il panorama mozzafiato, le birre bionde e fresche con la schiuma generosa e bianca ristoratrici prima del rientro al galoppo sul selciato e lo sterrato alterni sotto le fitte ramificazioni ombrose e Luciano dietro che strilla attenzione! Così ti fai male! E poi le discese sudate a Lerici, la salita al castello, San Terenzio e i panini e le pizzette nella piazza assolata. Porto Venere, la chiesa di San Pietro e la vista sulla scogliera della grotta di Byron guadagnati in rincorsa tra un battello e l’altro Luciano che richiama al pericolo dell’orario. La spuma delle scie nel vento che schiaffeggia la faccia tra il blu del mare e del cielo, il profilo della Palmaria che si allontana imbigiando e sfumando i particolari. Ho visto luoghi, ammirato colori, respirato aria e sentito gli odori ed il calore vociante delle viuzze, dei porti, delle spiagge, ci sono andato pur di persona eppure tutto questo oggi sembra un sogno irreale, confinato come un detenuto in semilibertà entro spazi ed itinerari precisi e delimitati, la mascherina al volto e dentro il petto orizzonti infiniti aperti da una libertà senza confini. Dove andrà questo mondo? Quali orizzonti potremo ancora contemplare? C’è tutto e non c’è nulla, tutto ci è dato e tolto ad un tempo. Lo diceva il santo Giobbe, Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore.

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